
Il docufilm di Peppe Tata è un viaggio in un tempo non lineare, dove i momenti più belli continuano a vivere: Socialità, tradizioni, calore umano. E per la prima volta dopo tanto tempo il regista riempie piazza Umberto, svuotando internet.

“THE BIG CIURIDDIA” Immagini 2minuti
Non solo calcio, quindi: il riferimento al “Grande Floridia” è una molla che Peppe coltiva da anni, alla ricerca di nodi da slegare. Il Grande Floridia – nel suo quarto capitolo – è il collante: la vincente squadra verde degli anni ‘60 e ‘70 riporta alla nostre migrazioni. Tutto attuale: la gente va e viene, così come i calciatori del passato sono venuti al sud, lasciando il nord. Una immigrazione al contrario, proprio mentre i locali cercavano fortuna a Melbourne, Hartford, Lules. A presentare il Gala, il critico cinematografico, Renato Scatà. Di fatto, tutti i protagonisti erano presenti. È stato un bagno d’immagini, compartecipazione, e, se vogliamo, rinascita dell’orgoglio floridiano. Scatà ha puntato sulla qualità di Tata, sul lavoro di una vita.

Le leggende su questo documentario riportano alla sua infanzia. “E’ la storia di un sogno – dice – in cui egli crede così tanto, sì da intraprendere un viaggio spirituale, approdando anche fisicamente al nuovo mondo, intervistandone i suoi protagonisti. Per i suoi sforzi non deve ringraziare nessuno, se non il suo team di amici e la sua volontà interiore: spostandosi dalla Sicilia in America di continuo, trova una sua dimensione in due posti, egualmente floridiani. Così vive due mondi allo stesso momento; è difficile mettersi a nudo, e dire: “io sono così”. E oggi lui rinsalda la comunità, troppo avvezza allo streaming, alla banalità dei social. Il perno di Peppe è stato il team: intercambiabile e abile nel passare da un ruolo all’altro. Dall’aiuto regista, la pregevole Rossellina Di Pietro, Marco Calafiore – curatore della fotografia e delle riprese e Peppe Forte alla fonìa. Da non tralasciare l’operato degli addetti al montaggio, particolarmente delicato per la resa metrica del film, Andrea Salibra e Giuseppe Torre. Indispensabile l’apporto della memoria storica della città, il grande Giuseppe Borgione, archivista, documentarista, cronista più d’un cronista, icona vivente della floridianità. “Mi sono scoraggiato proprio al mio arrivo in America, ma i miei amici mi han subito rincuorato, malgrado alcuni eventi negativi: alla fine ci siamo riusciti, seppur dopo troppo tempo, perché l’ho prodotto con i miei sacrifici: in America mi hanno insegnato a chiamare “mamma“ il mio paese. E il film non è altro che l’educazione sentimentale di un floridiano che non si sente più tale, ma che, attraverso il Floridia calcio e gli emigranti, s’immerge nell’essenza di Xiridia. La cosa più importante è questa, noi siamo figli di questa mamma Floridia, in qualsiasi angolo possiamo ritrovarci”. Romanticismo? Sì, lo snodarsi delle immagini è candido, poetico, chiaroscurale. Il film si apre con le immagini dall’alto di Floridia e la dedica a un suo figlio di eccellenza, Tano Di Stefano, l’aiuto dei migranti. La scena converge sulla terra, l’agro, l’ulivo, gli odori e i rumori delle campagne, le zappe che scavano dentro come argentei rintocchi della campana della Matrice. Poi le “interviews” agli emigrati albanesi, ucraini, rumeni. C’è un mondo nel mondo a Floridia. Da sempre. “La Sicilia non la cambierei con nulla” dice una delle intervistate dell’Europa dell’est. Quell’est che non divide, ma unisce, e che “ti fa sentire estranei in patria”. Già. Perché Tata ritiene che i veri floridiani siano quelli che tanti anni addietro lasciarono il paese per rifarsi una vita, un futuro migliore. Le famiglie floridiane sono sparse tra Melbourne e Hartford, passando per Lules, in Argentina, dove l’ottanta per cento è floridiano. E nessuno lo sapeva: Giuliano, Bazzano, Ierna, Forrmica, sono cognomi floridiani che compaiono in quelle lande. E Peppe viaggia, come un cercatore affamato si getta a capofitto sulla minestra di San Giuseppe, su quel calore vero di migranti rimasti “ciurdiani”. Il “Di cu si figghiu” basta. Non serve il cognome ma “l’ingiuria”, come “Pizzicanninu”, soprannome del padre. Ma la Floridia dei migranti vive ancora. Qui sta la contemporaneità espressa da Tata. Il grande squadrone dalla maglia Verde connette questi uomini indimenticati, che rendono grande il paese, lo rendono “Big”. Scorrono i titoli dei giornali d’epoca “Floridia in Festa”, le corse ciclistiche lungo il Corso, i finali in bianco e nero. Eppoi gli scontri sportivi con la vicina Siracusa: il floridiano vero tiene alla propria identità. Non c’è una spiegazione, malgrado la vicinanza fisica. Sono due cose differenti, vicine, sì, ma non sovrapponibili. E viaggia a incontrare i vecchi calciatori: chiede di Cacciavillani. “El Chico”. Lo fa per quei calciatori che sono rientrati a casa, al nord. Ma che, anch’essi, sono rimasti floridiani. Ieri sera erano qui per questo motivo. I racconti del dottor Rizza, allora nella dirigenza del Floridia Calcio, fanno luce sulle vicende meno note. Illuminante le sintesi di Egidio Ortisi: “E chi ne sapeva nulla di schemi e tattiche, allora? Le portò Cacciavillani”. Lo ricorda anche il professor Greco: “Con grande abnegazione, lui allenava questi ragazzi sia dal punto di vista atletico, sia dal punto di vista tattico”. C’era solidarietà fra la gente, ci si divertiva con poco e si amava molto. “I Balateddi, le cose semplici, i primi innamoramenti, gl’incontri, il rispetto fra i giovani” ricordano, infatti, i protagonisti. Mitico anche l’amico di tutti, Osvaldo Gobbi, tra i primi approdati e rimasti qui. “Presi l’enciclopedia per capire dove sarei finito – ricorda – salii sul treno e rimasi qui”. Ai nuovi arrivati di quegli anni sembrava un paese messicano. Pulito, candido, coi carretti fuori dalle case e gli animali in casa. “Alla domenica In tenuta sportiva – rammenta Greco – Cacciavillani in testa, insieme ai giocatori elegantemente vestiti, si appostava ai “quattrocanti” di Sant’Anna, cuore della città, al bar Lo Giudice: “Mi raccumannu, oggi ‘a fari u gol” si sentivano apostrofare benevolmente. Un’altra memoria del cuore è il signor Manzella, tifoso da sempre, “usato” da Tata per ricamare una trama dal fine ordito d’anima. I derby col Siracusa? Davide contro Golia. Una metafora che riempiva la vecchia statale 114 in un continuum brulicante di macchine che proveniva dal capoluogo. 12 km di fila. Vinse il campionato e andò in America. L’America in aereo. Qui c’è una cesura storica ancora aperta, genesi di discussioni fra le tante Floridie. Su quel DC8, da Fontanarossa, la squadra s’imbarcò per incontrare l’East degli States. Si preparavano pranzi e danze dappertutto, nell’America. Boston Tiger, Philadelfia. Ma il derby vero fu con gli Italiani American Stars. Avrebbe dovuto essere un’amichevole, disse l’arbitro Di Pietro. Non fu così. Il Floridia andò sotto, poi un rigore negato, uno assegnato, infuocarono gli animi. SI arrivò alle mani. Ma il match infuocato fu egualmente risolto dai Verdi. Tre a due, fuori casa. “Il compito della vostra tournée – rammenta Greco le parole dell’allora presidente Paolo Privitera – Voi portate il sentimento più espressivo della nostra terra, quel legame spirituale che ci accomuna sotto gli stessi colori. Grazie per questi attimi di felicità: la vostra impresa resterà scolpita nei cuori; ma siamo noi a dover ringraziare che si ricorda delle nostre radici”. I nomi da ricordare sono tanti, e, probabilmente, su qualcuno dovremo tornare: dagli indimenticabili Pippo Burgio ed Enzo Santacroce, testimoni di quegli anni d’oro.
“E io dico grazie d’esistere – narra Tata – perché nei loro sguardi riscopro il mio paese”. Floridia migrante era una città perfetta, dicono i testimoni del tempo. Ma è sempre Floridia, un arpeggio di emozioni, una città che non ne trovi uguale una neppure a cercarla nel resto dell’Italia dei comuni. “E ora so, alla fine del mio lungo peregrinare, che il mio paese è Floridia” chiosa il regista, fra i gladiatori in festa, i ragazzi verdi tornati a casa.
Importante la presenza del signor Zappalà, di Lules, dove sarà proiettato il docufilm in quel paese fatto per l’80 per cento da floridiani. Al termine, inevitabili i ringraziamenti a Gaetano Indomenico e Nino Giarratana, incarnazione dell’american dream. Ma anche a Paul Pirrotta, all’associazione Pulisena,. “Senza loro il documentario non sarebbe stato possibile, ché esiste il sogno americano, e io l’ho visto grazie a loro: vuoi fare? Fai!”. E anche questo è coraggio voglia di gettare il cuore oltre ogni ostacolo, poesia. È Floridia.